Banzano di Montoro: note di toponomastica e di araldica.

Nuova pubblicazione dell’articolo già apparso nel periodico “Vicum” numero di marzo – giugno 2013, contenente ulteriori chiarimenti, resisi necessari in seguito alla edizione di recenti scritti.

Figura 1. Il castello longobardo di Montoro, al centro delle località Carbonaro, Banzano e Borgo.

La toponomastica e l’araldica sono materie sussidiarie della storia. La prima, ricercando il significato dei nomi locali, spento da vari secoli, ma di cui rimane pur sempre una traccia, chiarisce concetti sul susseguirsi dei popoli che hanno lasciato la loro impronta, riscontrabile nell’aspetto toponomastico. La seconda, l’araldica, costituita dallo studio degli stemmi, permette di precisare il quadro storico degli avvenimenti che hanno coinvolto una famiglia o un ente.1 Infatti, sia lo stile dello scudo araldico, rappresentato secondo diversi tipi (es. sannitico, inclinato, triangolare, a testa di cavallo, ovale, accartocciato), sia il modo con cui esso è incluso nelle fabbriche oppure è raffigurato su oggetti (es. murato, appeso a un gancio, cesellato, dipinto) sia le partizioni del campo, fanno luce sull’epoca dell’esecuzione, precisata ancor più quando si conosca il motivo della concessione o l’avvenimento che ha causato le variazioni dello stemma originario e nel contempo documentano la portata delle vicende che hanno coinvolto una determinata cellula sociale.
Collegato, ma con differenze, è il linguaggio delle “imprese”, aventi un significato simbolico che, spesso, quasi come un anagramma o un insieme di figure con le quali <<si significano i nostri concetti intorno a le cose fatte o che abbiamo da fare>>2 ripropone il cognome familiare. Esse nel seicento testimoniano il progressivo sostituirsi di un’emblematica con connotati onomastico–morali3, alle celebrazioni delle imprese cavalleresche. Gli stemmi presi in esame in questo articolo costituiscono una via di mezzo tra le armi dei nobili e le imprese allegoriche.Queste note vogliono affrontare, con l’ausilio di dette materie, due aspetti riguardanti Banzano, uno dei villaggi che compongono il Comune di Montoro.

Figura 2. Il castello di Montoro all’imbrunire.

Un primo problema è costituito dall’origine del nome del luogo.
Se ne ha una traccia in un documento dell’ agosto 1018, conservato nell’archivio della Badia di Cava e pubblicato nel “Codex Diplomaticus Cavensis”4, che tratta il perfezionamento di un contratto di vendita, avvenuta tra parenti (“consortes”), di un territorio ubicato presso il vecchio castello (“castellum beterem”) di Nocera, mediante il pagamento di otto tarì d’oro di buon titolo (“auri tari boni”)5. I venditori, Grimoaldo figlio di Urso e i nipoti Urso e Ademario figli di Citro, Maraldo e Giovanni figli di Ademario e Pietro e Citro figli di Sellitto, pongono, come garante e mediatore nei confronti dell’acquirente Litto figlio di Litto, loro cugino, il prete Urso figlio di Andrea, abitante <<de locum bantianum>>Che si tratti di Banzano in Montoro è provato non solo dal fatto che questo documento, dell’agosto 1018, è stipulato in Montoro (<>) ma anche e soprattutto dal documento del settembre 1020, di cui si parlerà in seguito, che è un “memoratorium” fatto da Litto, figlio di Litto (comparente in entrambi gli atti) che fa riferimento ai <>.6.

Figura 3. Montoro. Veduta dalla località “Carbonaro”.

A questo atto del 1018 fa seguito un “memoratorium” del settembre 1020 scritto dal notaio Pietro, con cui Litto figlio di Litto7 pose fine ad una controversia con suo fratello Sesamo, dividendo i beni posseduti in Nocera nei pressi del “sedile” dove i due fratelli erano residenti e quelli posseduti in società con i <<parentibus nostris qui resident in locum muntorum in vanzanu dicitur>>8 . Troviamo ancora, dopo sessanta anni, il nome Banzano in un atto dell’agosto 1080 che tratta di una donazione, conseguente a matrimonio, effettuata da <<Urso filio quondam Ademari qui fuit de Vanzano et modo sum commorantes9 inctus anc castello Muntorum>>10: Urso figlio del fu Ademario, che fu di Banzano ed ora dimorante dentro il castello di Montoro, alla presenza di Raidolfo castaldo, riunito per buona convenienza con Urso figlio del fu Falcone suo genero e con Horsa sua figlia e moglie del predetto Urso, dona a loro, Urso e Horsa, in seguito all’avvenuto matrimonio, un terreno con viti arbostate, noccioli, castagni e alberi da frutto pervenutogli da suo padre Ademario, nel <<locum Muntorum Rotense finibus>> situato dove si dice <<ad Carbonara>>, confinante con gli eredi del fu Grimoaldo e con dei valloni per cui scorre l’ acqua (<<unde aquam fluit>>, <<per quam aqua decurrit>>).

Figura 4. Ripresa dalla località
“Carbonaro”. Veduta del monte S. Michele o Angelo.

I rapporti tra toponomastica e grammatica storica di lingue e dialetti e l’influenza che i sostrati linguistici prelatini rivestono sui toponimi italiani sono messi in rilievo dai moderni studi, non ultimi quelli del Pellegrini11, che riesamina la bibliografia precedente. La radice del nome Banzano (Bantianum nel documento del 1018 e Vanzano in quello del 1020) è contenuta in “Bantia”12, una parola di area messapica in senso lato, comprendente anche la Peucezia e la Daunia, cioè il territorio tra Irpina, Lucania e Puglia. Il toponimo si riscontra sulle due sponde del mare Adriatico con Bantia, da cui derivano Banzi, in provincia di Potenza, Vanze (Vernole, Lecce) e, nella penisola balcanica, Bantìa in Epiro.
Questa corrispondenza toponomastica delle due sponde dell’Adriatico, relativa anche ad altri nomi di luoghi, è indicativa di una migrazione di popoli, partendo da Est, avvenuta duemila anni prima di Cristo. La radice della parola è presente nella lingua degli Osci, gente italica, e figura nella “Tabula Bantina” come “bansae”, “bansa”, “bantins”. Questo non significa che il villaggio Banzano abbia necessariamente una origine cosi remota come la parola che lo denomina: la traccia preindoeuropea e prelatina del toponimo è rimasta in Banzano, come in altri nomi di luoghi, tramite i vari latini regionali, passando infine nelle lingue neolatine.
La radice del nome esprime le caratteristiche del territorio in cui Banzano è situato, ricco di fonti e di acque che finiscono per irrigare le terre intorno al sottostante villaggio di Borgo di Montoro13.
Per questi motivi, il toponimo va accostato ad altri nomi quali la <<Bandusia fons>> presso Venosa, citata da Orazio (od. III, 13) e va spiegato utilizzando la nomenclatura latina collegata a “pantanum” acqua stagnante, palude14, tenendo presente che per il villaggio montorese, posto sulla sommità di una collina che degrada verso la valle di Montoro da una parte e verso il territorio solofrano dall’ altra, possiamo parlare di sorgenti che sgorgano dal terreno più che di paludi.
Al deflusso delle acque possono essere riferiti due accenni presenti nel documento del 108015, dove si parla della proprietà <<ad Carbonara>>16 oggetto della transazione, della sua misurazione e dei suoi confini tra cui si distingue a mezzogiorno un <<vallone unde aquam fluit>> e ad occidente il limite è contraddistinto da <<vallonum per quam aqua decurrit>>.

Figura 5. Valle di Montoro dalla località “Carbonaro”.

Passando ad altro genere e ad altra epoca, ma rimanendo sempre nel campo delle scienze sussidiarie della storia, prendiamo in esame il linguaggio dei segni e dei simboli che è proprio dell’araldica, al quale si collega quello delle imprese, che nel villaggio di Banzano presenta degli esempi interessanti.
Tra le famiglie di questo casale va ricordata quella del notaio Giovan Sabato Pastore, personaggio di rilevanza storica, avendo partecipato alla ribellione cittadina avvenuta a Foggia nel XVII secolo17.
Da una numerazione dei fuochi, senza data, ma assegnabile, in base a vari riscontri al 1632/1633 (18)18, si rileva che il gruppo familiare del notaio19 era così composto: Clemente Pastore figlio del q.m Giovan Andrea, Costanza Marra moglie, N.re Sabato Pastore figlio casato, Giuseppe fratello.
I due ultimi nomi dell’elenco avevano rispettivamente l’ età di anni 30 e 15, il che contribuisce ad avvalorare l’ipotesi che il notaio sia nato nel 1602/1603 e il fratello nel 1617.
Dagli atti di archivio si rileva che il 5 dicembre 1622 si costituì Angela Antonia Ferraro, figlia del notaio Giovan Andrea, moglie del detto notaio Pastore e che il 5 maggio 1623, in casale Tori20, fu stilato il testamento di Clemente Pastore, con cui lo stesso lasciò eredi i figli, notaio Giovan Sabato, Rocco e Giuseppe, e stabilì la corresponsione di ducati 200 per ciascuna delle figlie, Maddalena, Beatrice e Lucrezia21.
In precedenza era avvenuto almeno un altro matrimonio a congiungere le famiglie Pastore e Ferrara. Lo dimostrano tre atti esistenti nell’ archivio notarile di Avellino, effettuati in data 10 ottobre 1563, il primo e il 31 ottobre dello stesso anno gli altri due, stilati dal notaio Giovan Domenico Russo, concernenti i capitoli matrimoniali e l’ avvenuto matrimonio, come si rileva dall’ ultimo atto, tra la <<nobilis et honesta mulier>> Lucrezia Ferrara, figlia dell’<<honorabilis>> Dionisio e l’ <<honorabilis>> Giovan Andrea Pastore figlio dell’<<honorabilis>> Meulo22. Come si è detto il notaio Giovan Sabato si legò, per matrimonio, alla famiglia Ferrara, sposando Angela Antonia, figlia del notaio Giovan Andrea, di cui si conservano gli atti dal 1603 al 1621 e sorella del notaio Vincenzo, operativo dal 1624 al 165323.
L’imparentamento di queste due case notarili trova riscontro negli stemmi disegnati sul frontespizio di due cartelle dello stesso notaio Pastore, contenenti atti dallo stesso stipulati negli anni 1623 e 1624, conservate attualmente nell’Archivio Notarile di Stato di Avellino24.

Figura 6. Archivio Notarile di Stato di Avellino, Busta 4185, anno 1623.

La prima pagina di esse è, infatti, illustrata con varie figure e disegni ornati, che fanno da contorno ad un ovale o ad uno scudo, al centro del foglio, in cui è descritta, in calligrafia del notaio25, la intestazione degli atti nella cartella contenuti con riferimento al sovrano allora regnante, all’anno e alla indizione, il tutto contrassegnato dal <<signum tabellionis>>26 .
Tra i disegni di contorno sono raffigurati, nel quaderno del 1623, quattro stemmi: quello del re di Napoli, quello del conte di Montoro (una banda bordata), negli angoli superiori e in quelli inferiori lo stemma del notaio (un braccio, movente da sinistra, destra in araldica, che impugna un bastone) e quello dei Ferrara (un compasso su tre monti con tre stelle poste in alto).
Nella cartella del 1624 sono disegnati, tra varie figure allegoriche, lo stemma dei Pastore, nella parte superiore del foglio e quello dei Ferrara nell’inferiore.
Queste raffigurazioni di imprese furono, nel 1998, riprodotte in fotocopia in un libro di storia montorese27 , ma la loro lettura è falsata dal montaggio fotografico, per cui lo stemma dei Ferrara è stato posto al centro della raffigurazione oltre che nell’angolo inferiore destro. Nel disegno originale, questa posizione centrale è riservata alla annotazione, probabilmente in calligrafia del notaio, relativa agli atti contenuti nella cartella.
Nello stesso volume viene affermato che la impresa suddetta (quella con tre monti e il compasso sovrastante) rappresenterebbe lo stemma dell’Università di Montoro. Forse questa è la ragione della erronea riproduzione fotostatica che pone lo stemma al centro della composizione.
E la perseveranza dell’affermazione che vede, nel disegno del Pastore, la raffigurazione di un antico stemma di Montoro, si evince, anche, in una biografia del notaio, edita nel 201628.
L’Università e poi il Comune di Montoro ha sempre avuto una raffigurazione diversa nel proprio stemma, in cui compaiono tre monti con una croce, infissa nella media e più alta cima di essi.

Il compasso, accompagnato in capo da tre stelle e in punta da un monte di tre cime (o tre monti)29 costituisce la caratteristica di fondo dello stemma di diverse famiglie, aventi cognome Ferrara o Ferraro, i cui ceppi principali ebbero dimora in Capua, nel salernitano, in Calabria e in Puglia. I gruppi familiari residenti in queste due ultime regioni usarono una impresa pressochè identica a quella degli omonimi montoresi.
Il confronto con altre famiglie aventi identità di cognome è l’elemento base per definire l’appartenenza di uno stemma, qualora manchino altri elementi.
La semplice presenza dei tre monti non autorizza, nel nostro caso, la attribuzione dello stemma all’ Università di Montoro, non risultando da nessuna parte che essa abbia avuto una tale impresa,con il compasso al posto della croce.

Figura 7. Stemma di Montoro. Archivio-Pironti-Università di Montoro.
Censimento delle confraternite e cappelle laicali. Notar Giacomo Moavero, 29 luglio 1793- Particolare.

Al contrario, proprio nel villaggio di Caliano residenza della famiglia Ferrara, esiste ancora almeno una traccia dell’impresa, scolpita nella chiave di volta del portone di accesso ad un cortile, quasi al centro dell’antico casale. Vi si vede chiaramente il compasso, mentre il resto dello stemma è cancellato dalla successiva inclusione di tre gigli borbonici, di cui uno in capo e due in punta, con probabile modifica della data sottostante30.
Attraverso l’araldica, a cui è correlata, come nel nostro caso, la materia prettamente cinquecentesca della composizione delle “imprese”31, ci viene dato un messaggio che mette in rilievo il legame

Figura 8. Impresa o stemma di Francesco Antonio e Simone Gisolfi – 1697 –. Si tratta di un’impresa che fa riferimento alla spiegazione del cognome e a toponimi locali. (Archivio Pironti – Attestato rilasciato al Rev.do D. Pasquale Gisolfi – particolare –
Notaio Nicola Moavero, 26 marzo 1779).

creato dal recente matrimonio tra Angela Antonia Ferrara e Giovan Sabato Pastore, tra l’attività notarile già consolidata, di Giovan Andrea e quella del giovane notaio Giovan Sabato. Ritornando all’ impresa dei Pastore, di essa esistono, in Banzano, diverse raffigurazioni: uno scudo con braccio armato impugnante un bastone32 si trova scolpito nell’arco del portone di ingresso del palazzo della famiglia Salerno33 ed ivi era anche affrescato sotto la volta. In questo ultimo caso, a destra del campo, essendo il braccio proveniente da sinistra, si vedeva dipinto lo stemma della famiglia De Giovanni: una spada con due corone all’antica, una in capo e l’altra in punta34.

Figura 9. Stemma De Giovanni – Pastore.

La raffigurazione fu eseguita in questa maniera in riferimento alle nozze del dr. fisico Giuseppe Pastore con Vittoria de Giovanni, di famiglia di avvocati (era sorella dell’U. I. dr. Giovan Angelo, morto nel 1644, Sindaco di Montoro e dell’ U. I. dr. Potito, morto nel 1699). La corresponsione della dote, di complessivi ducati 450, fu completata il 3 ottobre 1671. Vittoria de Giovanni morì il 20 luglio 1691, lasciando in legato, tra l’altro, ducati 200 per fare <<la cappa alla custodia del venerabile Sacramento della Chiesa Parrocchiale>> del Casale di Aterrana35.
Anche il dr. fisico Giuseppe Pastore nato nel 1617 o 161836, sposò, prima del 1640, una De Giovanni, a nome Giovanna. Dato lo stile della pittura, di epoca di fine seicento o primo settecento è probabile che lo stemma sia riferito al secondo, in ordine di tempo, dei due matrimoni, quello del 1671 ed eseguito intorno al 16937 .
Il costume di rappresentare gli stemmi nello stesso scudo o separatamente, in quest’ultimo caso, nello stesso contesto, costituisce un fatto frequente in epoca sei-settecentesca. Esso fu usanza di varie famiglie di Serino, di Solofra, di Montoro, del sanseverinese38 , per non andare lontano.
Nel caso in esame, gli emblemi di due famiglie sono combinati nel campo, senza essere divisi da speciali partizioni e non rispettando le regole di precedenza proprie delle armi dei nobili39 .
Sono, quindi, imprese eseguite secondo una composizione più libera, ma che anche tende a stabilizzarsi e a divenire contrassegno; affermano la discendenza anche matrimoniale, considerando che il contratto di matrimonio costituisce la base giuridica della famiglia40 .
Comprendere il significato dell’uso dei simboli, così frequente soprattutto in quei secoli, richiede un discorso più ampio.
La definizione di <<impresa>> destò l’interesse di Benedetto Croce, che esaminò la natura di essa e il significato dal punto di vista storico, del costume e letterario41. Il Croce si rese conto che di tutte le spiegazioni del concetto, ben poche riuscivano a dare la definizione che permette di distinguere l’impresa da altre manifestazioni simili e dell’ingegno. Infatti, non convincono le asserzioni del Giovio (Paolo Giovio:“Ragionamento…” 1560) che si occupa delle sue proporzioni e della figura, quella di Filippo Sassetti che la diceva una <<meravigliosa e celata significazione del concetto umano>>, quella dell’Ammirato che raccomandava di non fare l’impresa in modo da convertirla in enigma.
Le imprese e le figure simili cioè gli emblemi, le divise, le insegne, le medaglie destarono molto interesse e si diffusero in Italia, almeno fin dal primo cinquecento. Secondo il Giovio, l’uso si diffuse dopo che scesero nelle nostre regioni Carlo VIII e Luigi XII (per rivendicare territori) in maniera che ognuno che seguiva la milizia, ad imitazione dei capitani francesi, si adornava di simboli colorati e pomposi, che dimostrassero il valore nelle armi e le caratteristiche delle compagnie.
I trattatisti delle imprese le facevano risalire <<al principio del mondo e nelle età remotissime ne trovavano i precedenti, segnatamente nei geroglifici Egizii, dei quali avevano bensì un’idea attinta all’antica tradizione ma non poco fantasiosa e inesatta>>. Soltanto il Sannazaro, (in una lettera, indirizzata a Camillo Caracciolo, sulle armi e insegne delle famiglie) ne asseriva l’origine nel medioevo e riteneva che esse fossero rispondenti ad una necessità pratica.
Ma al di sopra di tutti gli autori che hanno trattato della materia, va posto Gian Battista Vico che, cosi, <<gettava di quei raggi potenti che rischiaravano filosofia e storia insieme>> e <<segnava la differenza profonda tra le imprese che ubbidivano a ingenti necessità pratiche, e quelle sfoggianti galanti e ingegnose>>42.
Il Vico, dunque, nel definire la categoria concettuale delle “imprese” distingue tra quelle moderne, dei suoi tempi, <<erudite>>, <<ingegnose>>, <<fatte per diletto>> da quelle antiche o primitive, formate dalla <<necessità a spiegarsi>>. Tra queste ultime annovera le insegne militari o le bandiere con le quali <<fansi intendere le nazioni ne maggiori loro affari del Diritto naturale delle genti, che sono le guerre, le alleanze e i commerci>>.
Se colleghiamo il concetto di società-stato con quello della cellula sociale che è la famiglia, possiamo vedere che, nei nostri esempi, al di là della illustrazione del cognome e di certe frivole curiosità, si vogliono affermare i rapporti economici tra famiglie, nella cui struttura le donne sono un elemento istituzionalmente portante, così come i legami tra le attività professionali.

Note

  1. Cfr. Pasquale Maria Luigi Piccininno, Aurelio Pironti, Arcangelo Bellino:“Gli stemmi degli arcivescovi di Conza” ed. a cura del Comune di Sant‘Andrea di Conza, tip. F.lli Pannisco, Calitri, settembre 2000, prefazione di A. Pironti, pag. 12-15.
  2. Cfr. Salza“La letteratura delle “imprese” e la fortuna di esse nel Cinquecento” in appendice alla monografia su Luca Contile, Firenze , 1903.
  3. Cfr. Benedetto Croce: “Scrittori del pieno e tardo rinascimento – XV Imprese e trattati delle imprese” in “La critica” anno XL, fasc. V, 20 settembre 1942, Laterza, Bari.
  4. “Codex Diplomaticus Cavensis” a cura dei DD. Michele Morcaldi, Mauro Schiani, Silvano De Stefano, O. S. B. – Tomo V, Milano, Pisa, Napoli, ed. Hoepli, 1878, doc. DCCVIII.
  5. Fin dall’inizio del secolo XI era in corso lo svilimento della moneta aurea bizantina e nello stesso periodo erano già cominciate le imitazioni amalfitane e salernitane dei quarti di dinar arabi. Il quarto di dinar = 1 tarì divenne quindi una moneta locale presente sul territorio, che approfittava della svalutazione dell’oro bizantino. La moneta delle nostre zone non era in crisi: basti pensare che i mercanti di Amalfi, Salerno e Gaeta erano presenti a Pavia nel X secolo, accanto a quelli di Venezia. Esisteva però una certa svalutazione che andava accentuandosi. Ecco perché, nel 1018, come si evince dal nostro documento, si richiedeva, per il pagamento, che il denaro fosse costituito da otto <>. Invece la sanzione che fissa il venditore, a carico di se stesso e dei propri eredi, per eventuali future controversie, viene determinata in una somma maggiore, cioè in <>, 20 solidi d’oro in moneta di Bisanzio. Questa sanzione era dovuta per ogni tipo di controve sia, per qualsiasi ragione e per omissione della difesa. Va tenuto presente che, nel 1018, un tarì d’oro salernitano o amalfitano oscillava tra valori di 1,02/0,995 grammi, con un contenuto di fino molto buono, cioè del 100% – 80%, e una moneta d’oro bizantina era di 4,05 grammi (“tetarteron nomisma”, frazione dell’ “histamenon nomisma” di 4,40 grammi). Sull’argomento v. Lucia Travaini: “La monetazione nell’Italia normanna” in “Istituto storico italiano per il medio evo. Nuovi studi storici” – 28, Roma, Palazzo Borromini, 1995.
  6. Da questi due documenti, del 1018 e del 1020, si può ricostruire la genealogia di Litto e Grimoaldo per cinque generazioni, a partire dai fratelli Godelperto e Giovanni, nati, probabilmente, nell’ ultimo quarto del secolo IX.
  7. “C.D.C”. 1878, op. cit., T. V, doc. DCCXXIV.
  8. C.D.C. a cura di Simeone Leone e Giovanni Vitolo 1990, T. X, doc. 141. Va notato che nei documenti notarili longobardi e normanni non c’è accordo tra i termini latini, dal punto di vista grammaticale.
  9. Alcuni elementi, tra cui la citazione degli eredi del fu Grimoaldo e del padre di Urso a nome Ademario, fanno pensare ad una conseguenzialità di questo atto dai due precedenti del 1018 e del 1020. Potremmo in questo caso prolungare di altre due generazioni la genealogia dei discendenti dei fratelli Godelperto e Giovanni (sec. IX), e dei figli del primo di essi, Framperto e Maraldo, attraverso Ademario figlio di Citro (1018).
  10. Giovan Battista Pellegrini:“Toponomastica italiana” Hoepli, Milano 1990-2012.
  11. Anche i curatori del “C.D. C.” in nota al doc. dell’agosto 1018 vedono il collegamento tra “Bantia” e il <>.
  12. Ritengo opportuno riportare i brani di due autori di storia montorese il Federici (1845) ed il Galiani (1947) in quanto essi hanno colto il significato, il “senso” del nome:<>. (Cav.Vito Federici:“Brevi cenni sulla Etimologia, Topografia, Origine e Corografia dello Stato di Montoro”1845 notizie manoscritte). <<Banzano, ben sano, per la solubrità dell’aria, per le sue limpide acque e per il vino squisito e di pregio. Nel fascicolo 90, fol. 76, dell’archivio angioino, sta nominato“Bansanum”. (Aurelio Galiani:“Montoro nella storia e nel folklore” 1947 e 1990).
  13. Cfr. G. Alessio-M. de Giovanni:“Preistoria e protostoria linguistica dell’Abruzzo” Lanciano Itinerari, 1983; “Dizionario di toponomastica” Utet, 1990, rist. 1991 pag. 59.
  14. C. D. C. vol. IX cit.
  15. Il nome della località <> (identificabile con l’attuale “Carbonaro”) limitrofa al villaggio di Banzano e degradante verso la valle di Montoro, indica secondo una certa terminologia facente capo al Du Cange (1610-1688) un <> e secondo il Tassoni (1983) a proposito di Carbonara di Po (Mantova) <>. Queste accezioni ben collimano con i <> che contrassegnano la località <> del nostro documento. Cfr. C. du Cange:“Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis” Niort, 1883-1887; G. Tassoni:“Toponomastica mantovana” Suzzara, ed. Bottazzi, 1983; “Dizionario di toponomastica” ed. Utet, cit., pag. 141.
  16. Per una biografia del Pastore, v. sac. Antonio Flodiola:“Notizie di Montoro” Matera, tip. “La Scintilla” 1906, pag. 80; Aurelio Galiani:“Montoro nella storia e nel folklore” I ed., tip. Rivellini, 1947, II ed. 1990, pag. 134-135; Gerardo Guariniello:“Piano di Montoro nella storia”ed.“La Ginestra”- Avellino 1998, pag. 37- 41, e “Gian Sabato Pastore…nella ribellione del 1648” Tip. Lubigraf Montoro 2016.
  17. Arch. Galiani-Pironti: numerazione dei fuochi dell’università di Montoro e suoi casali in provincia di Principato Citeriore. Il “fuoco” indicava il gruppo familiare e la sua consistenza. Ritengo che la numerazione suddetta sia riferita all’anno 1633, con prolungamento dei dati fino al 1643-1644, periodo successivo alla sospensione del 19 maggio 1642, citata da Antonio Colombo in “Memorie di Montoro” Napoli, tip. Gambella, 1883, pag. 21.
  18. Dalla numerazione suddetta si rileva che in Banzano esistevano quattro famiglie di cognome Pastore: quella di Francesco del q.m Arcangelo, separata dalla famiglia di Baldassarre Salerno del q.m Giovan Ferrante, dai successivi gruppi di Felice Pastore del q.m Decio e, appunto, di Clemente Pastore del q.m Giovan Andrea, al quale seguono famiglie di diverso cognome prima di quella di Nicola Pastore del q.m Pietro.
  19. Il casale Tori è nel centro antico di Banzano.
  20. Arch. Galiani-Pironti – appunti notarili redatti da Aurelio Galiani.
  21. Arch. Not. di Stato di Avellino:B 4147 – Not. Giovan Domenico Russo – a. 1563-1567 – fol. 22 -10/10/1563 – << Agentibus honorabili dionisio ferraro… et pro parte honorabilis petricole ferrarij pro parte nobilis et honeste mulieris lucretie ferrare>>. Promissio dotis; fol. 40 – 31/10/1563 << Comparentibus Joanne Andrea pastor… Meulo pastore patre dicti Andreae>> e Lucrezia figlia di Dionisio Ferrara. Capitoli matrimoniali; fol. 43 – 31/10/ 1563 <>, quietanza.
  22. La famiglia Ferrara risiedeva in Caliano, altro villaggio di Montoro, dove Giovan Andrea eresse, verso i primi anni del‘ 600 ( insieme al chierico Savino Califano ) la cappella di S. Maria della Sanità. Inoltre, in data 23 ottobre 1613, fu stipulato un atto tra il notaio Giovan Andrea e il parroco di S. Pietro, D. Giovan Nicola del Pozzo, per la fondazione e dotazione di una cappella dal titolo di S. Maria del Carmine, situata sopra quella del Rosario, nella Chiesa di S. Pietro. Lo stesso notaio fu anche sindaco, eletto nel 1618, per l’anno 1619, dell’Università di Montoro. Carte Galiani cit. da esse si rilevano i seguenti nominativi di appartenenti alla famiglia Ferrara che svolsero la professione notarile: Giovan Andrea (1603-1621); Vincenzo (1624-1653); Francesco Antonio (1657-1687); Giovan Andrea (1663-1690); Vincenzo (1694-1720); Giovan Andrea (1718-1748); Vincenzo Maria (1748-1790).
  23. Archivio Notarile di Stato di Avellino: Busta 4185, anni 1623 e 1624.
  24. Il notaio aveva una <> (A. Galiani:“Montoro…”, op. cit. II ed. pag. 134). Doveva, di conseguenza, essere predisposto al disegno e questo fa pensare che anche le raffigurazioni allegoriche e gli stemmi siano di sua mano.
  25. Il“signum tabellionis” è un segno personale di varia forma, utilizzato da ogni singolo notaio e di difficile contraffazione. Il “signum” di Giovan Sabato Pastore è formato da una stella fatta a riquadri, cimata da una crocetta e poggiata su tre monti, sotto cui, in un cartiglio, si legge il nome dello stesso notaio. La stella presenta, nel riquadro centrale, la raffigurazione dell’ impresa: un braccio, movente da sinistra (destra in araldica) impugnante un bastone.
  26. G. Guariniello: “Piano di Montoro…” op. cit. ed. La ginestra, Figura I, 1998.
  27. G. Guariniello: “Gian Sabato Pastore…” op. cit. Lubigraf – Montoro, 2016 pag. 43 e 47.
  28. In araldica lo stemma dei Ferrara si descrive in questo modo:compasso “aperto” in capriolo, accostato in capo da tre stelle di otto raggi ed in punta da un monte di tre cime. Dal vertice del compasso, verso la vetta centrale del monte, sono tracciati dei punti in linea perpendicolare. Che la definizione faccia riferimento al “capriolo” può essere un fatto significativo: il “capriolo” o “chevron” anglo-francese è la <>. (Giovanni Santi Mazzini: “Araldica, simboli e significato dei blasoni e delle arme” Mondadori, 2003).
  29. A Caliano vi fu una concreta adesione alla causa della vecchia famiglia reale. Basti pensare al maggiore Giacomo Livrea (n. 1801 m. 1871) strenuo difensore delle posizioni borboniche alla fortezza di Baia, fino al 14 settembre del 1860. (Cfr. A. Galiani: “Montoro…” op. cit. II ed. pag. 146-147). Potrebbe essere questo il motivo dell’inclusione dei gigli nella chiave di volta, successiva all’esecuzione della stessa.
  30. Le “imprese” sono caratterizzate da una emblematica recondita, che include la figurazione di <> accanto a <>. La rappresentazione di questi simboli col tempo tende a vincolarsi a una certa tipologia e a costituire una forma di araldica privata.
  31. Il braccio destro in araldica si definisce <>. Esso va soggetto ai seguenti attributi: tenente, armato, nudo, vestito, alato, impugnante.
  32. Al palazzo è annessa una cappella settecentesca con le sistemazioni apportate dalla famiglia Gisolfi, di cui, nel pavimento esiste lo stemma in terracotta policroma: tre monti in campo azzurro, sormontati quello di destra (v. nota successiva) da un gallo e quello di sinistra da un leone, accompagnati in capo da un sole con volto umano a destra e da una mezzaluna a sinistra. Si tratta chiaramente di un’ impresa facente riferimento ad ipotetiche spiegazioni del cognome e a toponimi locali (Solofra, Lunara). Vedi raffigurazione nel testo, tratta da un disegno del notaio Nicola Moavero, 1779.
  33. La spada viene rappresentata, in questa pittura, inclinata, con l’elsa a sinistra in basso, il tutto in campo d’azzurro. Dopo il terremoto del 23 novembre 1980, il portone è stato imbiancato, così da fare scomparire lo stemma, di cui, però, esistono altre raffigurazioni. In linguaggio araldico la parte dello scudo verso l’alto si dice “capo”, quella verso il basso è detta “punta”. <>.
  34. Documenti della famiglia de Giovanni, di Aterrana.
  35. Fratello del notaio Giovan Sabato.
  36. Lo stemma come si è detto più non esiste. Le mie riflessioni sono basate sul ricordo e su disegni.
  37. Esempi bellissimi e araldicamente perfetti, si trovano in una notevole quantità di dipinti di pittori fiamminghi.
  38. Nelle scritture riguardanti materia nobiliare del Grande Archivio di Napoli, nelle regie concessioni e negli elenchi della Consulta Araldica si è trovato un esiguo numero di famiglie di Montoro. Esse sono: Galiani, Gervasio, Pepe, Pironti, Del Pozzo, Tango. Più numerosi sono i casati di <>, quali Pastore e Ferrara, presenti in altre fonti documentarie.
  39. Il concetto di <> o altri concetti simili (asserito da G. Guariniello: “Gian Sabato Pastore…” 2016, pag. 117) sono azzardati. Non si possono attribuire all’epoca seicentesca valori propri dell’illuminismo, che portò all’affermazione della dignità dell’uomo e del cittadino e, dopo una progressiva evoluzione, solo nel primo novecento, al femminismo.
  40. Cfr. B. Croce: “Scrittori del pieno e tardo rinascimento – XV Imprese…” in “La critica” op. cit. 20 settembre 1942, Laterza, Bari.
  41. Cfr. G. B. Vico: “Scienza nuova prima, III, c. 27” e “Scienza nuova II, 1 c.” in B. Croce: “Scrittori… Imprese e trattati…” in “La critica …” op. cit. 1942, Laterza, Bari.